venerdì 1 maggio 2015

La PAURA di RIUSCIRE di Mariacristina Guardenti

Quando durante un percorso di counseling, il cliente manifesta la paura legata al successo della riuscita e l'avvicinarsi alla buona riuscita e al cambiamento procura ansia e timori, questa difficoltà pregiudica spesso l'esito positivo.
 A volte il poter verificare che si può giungere là dove ci si era prefissati di arrivare, avendo la possibilità di sperimentare le proprie forze e le proprie insicurezze viene vissuto come qualcosa di troppo estremo, una energia di movimento e volontà che può sopraffare.
E' che in questo modo ci togliamo il coraggio di affrontare il cambiamento, attraverso un angosciato atto di sabotaggio tale da rendere impossibile raggiungere una esperienza grande o piccola che sia.
Scegliere solo quello che reputiamo comodo e scegliere di negarsi il poter dire "non mi sento capace", vuol dire rinnegare un lavoro di autostima che deve essere raggiunto a volte con fatica e con impegno.
Assunzione di responsabilità che, come in questo caso, pesano.
Il non fare le cose o attraversare le esperienze perché così non incontro il mio senso di inutilità, la paura di riuscire è anche la paura del dopo.
Poiché una volta raggiunto l'obiettivo, dopo, cosa farò? Cos'altro potrò inventarmi per sentirmi vivo? Soprattutto se mi sono sentito vivo solo attraverso la difficoltà o il dolore forse perché è l'unica esperienza che conosco fino ad oggi?
Mette inoltre in campo anche un'altra attesa performativa: dopo aver fatto quella cosa che mi sembra irraggiungibile e  averla superata, non potrò tornare indietro, esigerò da me sempre prestazioni di quel livello, se non superiori.
Ci vuole coraggio anche per riuscire, il coraggio di sbagliare e riprovare, alla paura si delega la decisione di essere felici, al coraggio dobbiamo concedere l'opportunità di sbagliare; più saremo in grade di tollerare la frustrazione e il fallimento e più saremo in grado di realizzare il cambiamento tanto temuto.
Il fatto di bloccarci appena siamo vicini al traguardo e percepire il futuro come un vuoto senza problematiche ci porta a concepire la paura in un unico movimento, mentre invece può avere direzioni e andamenti diversi.
Proviamo a guardare la nostra paura senza tentare di risolverla, senza introdurre al suo posto il coraggio, senza sfuggirla, semplicemente standoci.
Solo quando siamo in contatto con la nostra paura allora la nostra mente può percepire quella che è la paura totale e non quello di cui abbiamo paura.
Senza perdersi a guardare gli aspetti particolari e peculiari della paura, scansionati pedissequamente uno per volta, in una catena quasi infinita di sfumature,  che non arriveranno mai al problema centrale che è l’imparare a vivere con la paura. E' semplicemente perdersi in quelli che io chiamo i "preliminari" senza atto conclusivo.
Orientando acutamente Mente Cuore e Pelvi, sperimentando l'assenza di giudizio o il solo non giungere a conclusioni, ma seguendo ogni movimento della paura,.
Chiedendoci “chi è l’entità che vive con la paura? “ “Chi è che osserva la paura?” L'osservatore che dice "Ho paura" è forse separato dalla sua paura?

L’osservatore è la paura stessa e quando si arriva a comprende questo non vi è più alcun spreco di energia nel tentativo di sbarazzarcene. Quando vediamo che noi siamo parte della paura, che noi siamo la paura, allora non possiamo farci niente. Solo così la paura può giungere totalmente alla fine.
 
Negli anni Sessanta del Novecento, lo studioso statunitense John W. Atkinson (1923-2003) ha elaborato una teoria ben precisa riguardo alla voglia di riuscire e alla paura di non farcela.

Secondo Atkinson gli individui, quando si trovano di fronte a un determinato compito o ad un obiettivo da raggiungere, sono sollecitati da due spinte motivazionali contrapposte:

• la tendenza al successo (speranza di riuscita) 
• la tendenza a evitare il fallimento (paura dell'insuccesso).

La prima spinge le persone a impegnarsi in compiti difficili (ma percepiti come fattibili), mentre la seconda le induce a scegliere compiti più facili (per i quali il fallimento è improbabile)o, all'opposto, estremamente difficili (per i quali questa eventualità è attribuibile a cause indipendenti dalla loro responsabilità). 
 
Naturalmente, il ruolo e il peso di queste due tendenze variano considerevolmente da individuo a individuo: esistono persone "paralizzate" dalla paura di fallire; altre che amano mettersi in gioco in attività molto impegnative; altre ancora in cui la speranza del successo e la paura del fallimento si bilanciano.
Combinando tra loro le diverse possibilità, Atkinson ha individuato 4 tipologie differenti di soggetti:

• over-strivers, con alta tendenza al successo e alta tendenza a evitare il fallimento; 
• success-oriented, con alta tendenza al successo e bassa tendenza a evitare il fallimento; 
• failure-acceptors, con bassa tendenza al successo e bassa tendenza a evitare il fallimento; 
• failure-avoiders, con bassa tendenza al successo e alta tendenza a evitare il fallimento.

Ad esempio, il ragazzo definito dai suoi insegnanti "poco motivato allo studio" rientra proprio in quest'ultima categoria: non crede nelle proprie possibilità di successo scolastico ed è allo stesso tempo angosciato dall'eventualità di fallire. Di pari passo con la paura del fallimento, spesso viviamo la paura del successo: l’idea che se osiamo troppo i nostri legami con la famiglia e con gli amici, con le cose “vere” insomma, si deterioreranno.
E questo timore sembra colpire in maggior misura le donne. La psicologa Martina Horner ha ideato un test sulla personalità nel quale si chiedeva a uomini e donne di scrivere la storia di due studenti di medicina, una femmina e un maschio. In quasi due terzi dei racconti delle donne la studentessa esprimeva una paura del rifiuto, oltre alla preoccupazione di violare i canoni culturali della femminilità.
Caso frequente è poi quello dei sentimenti contrastanti delle donne di fronte alla prospettiva di guadagnare più dei mariti, una vera e propria “tendenza al ribasso personale”. Un’indagine condotta nelle università dell’Ivy League conferma che le donne temono di spiccare intellettualmente, per paura che questo influenzi negativamente l’opinione che gli uomini hanno di loro. Preconcetti che credevamo estinti appaiono dunque più vivi che mai.
E da simili paure non sono immuni neppure le professioniste di successo. Come riporta la columnist del New York Times Maureen Dowd nel suo libro “Are Men Necessary? When Sexes Collide”: “Una mia amica il giorno in cui ha vinto il Pulitzer mi ha chiamato quasi in lacrime: “Adesso”, si è lamentata, “nessun uomo vorrà più invitarmi ad uscire”.
La paura è uno dei più grossi problemi della vita. Una mente intrappolata dalla paura, vive nella confusione, nel conflitto. Non osa distaccarsi dai suoi caratteristici modelli di pensiero e perciò diventa ipocrita. Vivendo in questa società, con l’educazione che riceviamo basata sulla competizione che genera paura, siamo sovraccarichi di paure di ogni tipo e la paura è una cosa spaventosa che deforma distorce e intorpidisce i nostri giorni.
Esiste anche la paura fisica, ma quella è una reazione simile a quella degli animali.
Qui ci occupiamo della paura psicologica. Quando avremo capito le paure psicologiche profondamente radicate dentro di noi, allora potremo affrontare le paure animali, mentre occuparsi prima della paura animale non ci è di alcun aiuto per comprendere le paure psicologiche.
Abbiamo sempre paura di qualche cosa. Non esiste la paura in astratto, essa è sempre in rapporto a qualche cosa.
Conosciamo le nostre paure?
Paura di perdere il lavoro, di non avere cibo o denaro a sufficienza, paura di ciò che gli altri pensano di noi, paura di non riuscire ad avere successo, di essere ridicolizzati, disprezzati, paura delle malattie, paura di perdere le persone che ci sono care, paura di perdere la fede, di venire meno all’immagine che gli altri si sono creata di noi etc…
Quali sono le nostre paure? Che cosa facciamo nei loro confronti?
In genere le fuggiamo, ma fuggire dalla paura significa farla crescere.
Una delle principali paure è che abbiamo paura di affrontarle.
Ma che cosa è la paura?
Come nasce?
Che cosa intendiamo veramente quando diciamo la parola paura?
 
Conduciamo un certo tipo di vita, pensiamo secondo un certo modello, seguiamo una certa fede, certi dogmi e non vogliamo che questi modelli di vita vengano scossi perché sono profondamente radicati in noi. Noi vogliamo essere ragionevolmente sicuri dello stato di cose a cui andiamo incontro. Perciò il pensiero ha creato un modello e si rifiuta di crearne un altro che potrebbe essere insicuro o rendermi insicuro.

Prendiamo ora le nostre particolari forme di paura, guardiamole ed osserviamo quali sono le nostre reazioni ad esse.
Possiamo guardarle senza ricorrere alla fuga, alle giustificazioni, alla condanna, al soffocamento di esse?
 
Il primo e fondamentale passo verso la risoluzione delle paure è accettare la loro esistenza e poi riuscire a guardarle senza dare loro una connotazione negativa.
 
La risposta definitiva la lascio a Nelson Mandela.

«La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre misura. È la nostra Luce, non le nostre Tenebre, ciò che più ci spaventa. Ci domandiamo: chi sono io per essere brillante, splendido, ricco di talento, favoloso? In realtà, chi NON devi essere? Sei un figlio di Dio. Farti piccolo non serve al Mondo. Non vi è nulla di illuminante nel restringersi cosicché gli altri attorno a te non si sentano insicuri. Noi siamo nati per rendere manifesta la gloria di Dio che è dentro di noi. Non è soltanto in alcuni di noi; è in tutti. Facendo brillare la nostra Luce, inconsciamente diamo agli altri il permesso di fare lo stesso. Mentre noi ci liberiamo della nostra paura, la nostra presenza automaticamente libera gli altri».

LA PASSIONE COME BASE VITALE DI CAMBIAMENTO

Pubblicare le poesie inedite di mio padre oltre che un atto d'amore postumo, vogliono essere un riconoscimento di quanto la passione verso un attività o un hobby, possa spingere verso un radicale cambiamento. Nessuno scommetteva su di loro, come coppia intendo, figuriamoci come famiglia futura e invece, sono stati vincenti, proprio attraverso quel sentimento che a volte se non controllato può bruciare l'anima e le persone.
Mi riallaccio così al discorso delle Arti come " atto di cura", cura di se stessi attraverso una catarsi creativa rigenerante.
Che sia la poesia, la pittura, la scultura il teatro, il canto, la musica, il gioco. una passione sentita ed avvertita come fuoco interiore ha la capacità di riempire vuoti e ombre e nutrire orizzonti nuovi, che appartengono anche agli individui caratterizzati da sanità mentale.
Ho potuto vedere come il grande e contrastato amore passionale dei miei genitori ha reso possibile questo, lui mio padre, trasformava in Arte tutto ciò che toccava e con indolenza non voleva riconoscersi un ruolo fondamentale nella famiglia, lei mia madre era creatrice cosante di "movimenti" artistici quotidiani.
Sapeva disporre accuratamente con gusto e garbo fiori e piante (cosa che poi prenderà il nome di ikebana e di cui lei non era assolutamente a conoscenza). Sapeva ricevere i personaggi illustri della nostra città come una esperta diplomatica e aveva creato una rete di solidarietà nel quartiere che avrebbe fatto invidia ad un organigramma aziendale, e solo perché avevano tutti e due un fuoco dentro.
La passione ahimè a volte brucia veloce sotto la tempesta indomita di aria fritta, nel senso che la passione di per sé è un emozione strettamente legata alla sua etimologia latina "pati" patire, soffrire nel fisico e nella mente, in psicologia il concetto è stato risolto nei significati più specifici di affezione, emozione e pulsione (erotica e aggressiva); in effetti il concetto va inteso quale principio di attivazione di una emotività che investe con forza l'intera persona.
Il concetto però non appartiene al mondo della pratica, spesso il fare differisce dal sapere nell'esperienza diretta del processo.
Posso solo affermare che nella pratica ho visto due esseri: mio padre e mia madre che attraverso la passione hanno saputo ricreare, anche se con diversi scontri, un aria di continuo rinnovamento all'interno della loro coppia e alla luce di ciò che sono oggi devo ringraziare per la lezione di vita ricevuta.
Passione è incidere con forza nel fisico e nella mente un andamento propositivo atto a renderci vitali. Qualsiasi sia il mezzo per esprimerla.



poesie tratte dal libro "Aggiungimi" di Florio Mario Guardenti 2

MIA

COME IDIOTA TI GUARDO BELLISSIMA
DENTRO UN CANE CHE MORDE
LE PAROLE DICONO OFFESA
SEI SOLO APPARTENENTE A ME
DIO DELLA TUA VITA
DEL BENE E DEL MALE
TI OFFRO IN SACRIFICIO
PER POTER VIVERE ANCORA



E TU

SOLLEVI RICCIOLI
E NEGLI OCCHI LUCE
MI PERDO, MI RITROVO
TI PRENDO CONTRO VOGLIA
LASCIAMI ANDARE AFFINCHE'
TU POSSA CERCARMI ANCORA
LIBERO COME SOLO VENTO
CALDO COME IL TUO FUOCO SOTTO
VIVO E PIENO DI RABBIA
MORDIMI LASCIAMI UN SEGNO
IL MARCHIO E' VERO
VIVO DI TE PER SENTIRE
CHE NON POSSO

ADDIO VIAREGGIO

OGNI VOLTA CHE LASCIO IL SOLE
LA SABBIA CALDA
IL MARE AZZURRO
I GIOVANI CHE RIDONO
LE BELLE GAMBE DI RAGAZZE
LE GRIDA DEI BAMBINI
STRUGGENTE NASCE NOSTALGIA
VIAREGGIO
E POI L'INVERNO
E SEMPRE BELLA TORNI
SOTTO IL PLUMBEO CIELO
NUVOLE DI TORTORA
MARE PERLA SPUMEGGINATE
E TI AMO VIAREGGIO
TI AMO ED AMO I TUOI PAESAGGI
ADESSO TI DETURPANO
PALAZZI NUOVI E VILLETTE ASTRUSE
COME DONNA OLTRAGGIATA
DIGNITOSA TI DISPIEGHI
SUL LITORALE ACCESO
E PIENO DI PROMESSE
VIAREGGIO



NON SAPEVO

NON SAPEVO IL VALORE
NON SAPEVO IL VALORE DI QUELLO
E NON CONOSCEVO CHE IL NIENTE
AVEVO CHIARO IL SOGNO
AVEVO CHIARA LA MENTE
E MENTRE INOSCIENTE SBOCCIAVI
NON SAPEVO IL VALORE
NON SAPEVO IL VALORE DI QUELLO
E NON CONOSCEVO CHE IL NIENTE
AVEVO SPIRAGLI DENTRO
AVEVO NASCOSTO SOSPIRI
E SAPEVO CHE SAPEVI MA
NON SAPEVO IL VALORE
NON SAPEVO IL VALORE DI QUELLO
E NON CONOSCEVO CHE IL NIENTE


AFFASCINATI

IL NOSTRO INCONTRO
CLANDISTINO IL LUOGO
LA PASSIONE CHE CI AVVOLGE
E NELL'IMPOSSIBILITA'
CHIEDO
LO SAPPIAMO QUANTO SARA' DURO IL NOSTRO AMORE
AFFASCINATI COME SIAMO DA ILLUSORIE FANTASIE
VORTICOSAMENTE PRESI DA ARDENTI BACI
PASSIONE DI CORPI NUDI
LENZUOLA UMIDE DI AMPLESSI
VITA SEVERA DA ABBATTERE


poesie tratte dal libro "Aggiungimi" di Mario Florio Guardenti

ARRIVEDERCI AMORE
VOLEVO DIRTI ADDIO E
NON MI E’ STATO DATO TEMPO
RIMPIAGERE NON POSSO,
PERCHE’ DATO TI HO TUTTO...
E PARLO DI CERTEZZE
E PARLO DI AFFLIZIONI
RIMPIANTI NON HO,
HO “TANTO” VISSUTO CON TE,
MI MANCA LA TUA PELLE,
L’ODORE INTENSO TUO
ADESSO SONO SOLO
IN COMPAGNIA DEL VENTO,
MI DICONO CHE L’ANGELO
VERRA’ SICURO A PRENDERMI

PORTANDOMI NEL CAMPO
DI LUCE UNIVERSALE
E TU POTRAI ABBASSARE
IL VELO DISILLUSO
E APPENA LUI CADRA’
POTRO’ VEDERTI ANCORA
TORNARE NUOVAMENTE
SU ACQUE TANTO AMATE
MENTRE STO AVVIANDOMI
SO
CHE TI TROVERO’






TI RINGRAZIO
PER TUTTE LE PAROLE NON DETTE
PER TUTTE LE ESPERIENZE NON FATTE
PER TUTTI GLI ABBRACCI, BACI E CAREZZE NON RICEVUTE
PER OGNI GESTO MANCATO ...
TI RINGRAZIO PERCHE’ TI AMO
ESATTAMENTE COME MI AMI TU

 

oltre il naso ... rosso ... c'è di più ....










camminando ....
















Metafore veicolo di espressioni linguistiche e di strutture concettuali profonde di Mariacristina Guardenti

I concetti, come base che abbiamo di conoscenza del mondo, ci aiutano ad orientare la realtà attraverso la semantica (il verbale) e ci forniscono una chiave veloce atta alla "categorizzazione" della realtà. riguardo al sistema cognitivo stiamo parlando di un campo dove le stesse "scienze" che condividono l'oggetto di studio, il cognitivo, non condividono metodi e saperi; riferendomi alla formazione personale e al Metodo Pluralistico Integrato sono propensa ad una visione sinergica tra discipline che potrebbe convergere in un unica risposta: la conoscenza.

 Mi piace la definizione data da Paolo Legrenzi (professore di psicologia presso l'Università di Venezia) che nel  "2002/2010 prima lezione di scienze cognitive" trad. Laterza,  dice a proposito delle scienze cognitive:" le scienze cognitive hanno come oggetto di studio la cognizione, e cioè la capacità di un qualsiasi sistema, naturale o artificiale, di conoscere e comunicare a se stesso e agli altri ciò che conosce."

Del resto non solo la filosofia ha ricercato significati alla riflessione sul problema della "conoscenza"
anche altri studi tra cui la psicologia che grazie al behaviourismo (studi basati su comportamenti osservabili direttamente escludendo i processi mentali) si è resa disciplina scientifica adottando il metodo sperimentale e rinunciando a tutto ciò che non lo è. La psicologia sperimentale poi per decenni ha basato i suoi assiomi sul meccanismo "stimolo-risposta", sottoponendo soggetti (umani e animali) a stimoli determinati e osservando la loro risposta.

Se da una parte i dati sperimentali accumulati hanno permesso di mettere in evidenza determinati meccanismi, dall'altra rimanevano ancorati a situazioni limitate, semplificate e non ripetibili.

Dalla Seconda Guerra Mondiale, i comportamenti umani derivati dai "meccanismi mentali" ebbero un diffuso interesse; i processi non direttamente osservabili, interni, portavano all'elaborazione di ipotesi sul "loro" funzionamento. Stava iniziando ad originarsi, anche se in maniera non consapevole la Psicologia Cognitiva.
Possono essere incluse nella grande famiglia della scienza cognitiva o per meglio dire delle scienze cognitive un numero diverso di discipline; gli altri campi possono essere l'intelligenza artificiale, la linguistica, la filosofia, le neuroscienze (neuropsicologia e neurofisiologia).
Anche se i confini delle scienze cognitive si elicitano indefinibili, ci sono altri  studi che condividono lo stesso interesse per i nascosti significati della conoscenza e del sistema cognitivo.

La teoria di George Lakoff e Mark Johnson (1988) che non esiste differenza reale tra sistema semantico (verbale) e sistema concettuale è prettamente di matrice logico-linguistica.

La nostra base di conoscenza del mondo e del "modo" in cui interagiamo con esso è il sistema concettuale. I concetti ci aiutano a classificare la realtà, ci permettono quindi di "incasellare" in gruppi più ampi e conosciuti le singole circostanze ed evenienze che abbiamo ogni giorno.
E per i concetti astratti con cui spesso costruiamo i nostri ragionamenti?
Concetti, ragionamenti e modi in cui li utilizziamo rappresentano il modo in cui noi vediamo la realtà, quello che sappiamo di noi e del mondo che ci circonda, è fondamentale per il nostro pensiero e anche per il nostro agire. semplicisticamente potremmo dire che i sostantivi (i nomi) esprimono le categorie con cui classifichiamo gli oggetti del mondo, sia concreti che astratti; alcune congiunzioni ( quindi, e, se, etc...) rappresentano i tipi di nessi logici che noi utilizziamo nel ragionamento, a cui si accompagnano elementi sonori, visivi, olfattivi, cinestesici, etc. che fanno comunque parte del sistema concettuale.
L'idea di questi due studiosi Lakoff e Johnson è quella di studiare questo sistema concettuale, il modo cioè in cui sono strutturati al loro interno e tra loro, attraverso la manifestazione del linguaggio verbale.


Essi notano infatti che:

noi non siamo consapevoli del nostro sistema concettuale; nella maggior parte delle piccole azioni

che quotidianamente compiano, noi semplicemente pensiamo e agiamo in modo più o meno

automatico, seguendo certe linee di comportamento. La difficoltà risiede proprio nel definire cosa

sono queste linee.

Una possibilità per individuarle è prendere in considerazione il linguaggio; infatti dal momento che la

comunicazione è basata sullo stesso sistema concettuale che regola il nostro pensiero e la nostra

azione, il linguaggio costituisce un’importa nte fonte per determinare come è fatto questo sistema

[Lakoff-Johnson 1998: 21-22].


Si accorgono che i nostri discorsi sono intessuti di metafore continuamente e molto più della nostra consapevolezza al riguardo, e le metafore di cui imbeviamo i nostri discorsi non sono quelle classiche ed elementari, sono invece sottili e irriconoscibili; poiché sono gli stessi concetti che hanno un organizzazione metaforica.
Se prendiamo la metafora discussa da loro nel 1988 LA DISCUSSIONE E' UNA GUERRA, dall'idea che la discussione, sotto certi aspetti, sia una guerra, viene analizzata secondo diverse realizzazioni.

LA DISCUSSIONE È UNA GUERRA

Le tue richieste sono indifendibili.

Egli ha attaccato ogni punto debole nella mia argomentazione.

Le sue critiche hanno colpito nel segno.

Ho demolito il suo argomento.

Non ho mai avuto la meglio su di lui in una discussione.

Non sei d’accordo? Va bene, spara!

Se usi questa strategia, lui ti fa fuori in un minuto.
 
Egli ha distrutto tutti i miei argomenti.

Bisogna specificare che quando parliamo delle discussioni in termini di guerra, lo facciamo nella convinzione di vincere o perdere, vedendo la persona con cui stiamo discutendo come un nemico, attacchiamo le sue posizioni difendendo le nostre, guadagnando o perdendo terreno, usando strategie e facendo piani di "guerra", abbandonando una posizione indifendibile scegliamo una nuova linea di aggressione.
Spesso quando discutiamo siamo strutturati nella relazione attraverso il concetto di guerra e sebbene non ci sia un combattimento fisico ma solitamente verbale, esso si riflette sulla nostra discussione: difesa, attacco, contrattacco, offesa, etc., In questo senso la METAFORA DISCUSSIONE è pienamente GUERRA: struttura le azioni che noi compiamo quando discutiamo.

Se invece proviamo ad immaginare una situazione dove le discussioni non siano viste in termini di GUERRA, dove non ci sia nessun senso nell'attaccare o nel difendere, nel guadagnare o perdere, dove nessuno vinca a discapito di un altro. Immaginiamo una cultura dove la discussione viene vista come una DANZA, oppure una esibizione in cui i partecipanti sono visti come attori e lo scopo è una rappresentazione esteticamente piacevole ed equilibrata. In questa cultura la gente vedrà e vivrà le discussioni in modo completamente diverso, le condurrà in modo diverso e ne parlerà in modo diverso. E' forse assai probabile, direi ovvio  che dal nostro punto di vista questa gente non starebbe discutendo ma facendo qualcosa di diverso.
Sarebbe strano perfino descrivere la loro "azione" come discussione. Forse il metodo più neutrale per descrivere la differenza fra la cultura nostra e la loro, sarebbe dire che noi abbiamo una forma di discorso strutturata in termini di "combattimento", mentre loro ne hanno una strutturata in termini di "danza".
  questo è solo un esempio di cosa significa esplicitando un concetto metaforico: la discussione è una guerra, che struttura almeno in parte ciò che facciamo e come comprendiamo ciò che stiamo facendo nel corso di una discussione. L' essenza di una metafora è comprendere e vivere un tipo di cosa in termini di un altro. Le discussioni e le guerre sono cose diverse, discorsi verbali e conflitti armati letali in cui le azioni compiute sono realmente DIVERSE.
Il concetto è strutturato metaforicamente, la discussione viene strutturata, compresa, eseguita, definita, solo in termini di guerra, l'attività del discutere è strutturato metaforicamente e di conseguenza il linguaggio si assoggetta alla stessa struttura metaforica.

questi sono i modi consueti di avere discussioni o di parlarne: attaccare la posizione di altro viene definita semanticamente proprio con le parole " attaccare la posizione". Il nostro parlare nelle discussioni presuppone una metafora di cui non siamo mai consapevoli e non solo nelle parole che usiamo è inserita la metafora ma nel concetto stesso di discussione; il linguaggio con cui viene definita non è né poetico, né retorico, né fantasioso ... è LETTERALE: ne parliamo in quel modo perché viene concepito da noi in quel modo e ci comportiamo secondo le concezioni che abbiamo delle cose.

L’ipotesi di Lakoff e Johnson è a questo punto chiara: il sistema concettuale è spesso organizzato in
maniera metaforica.

Il concetto di DISCUSSIONE viene strutturata come metafora di altri concetti, ad es la GUERRA

Avviene soprattutto per quei concetti particolarmente astratti o lontani dalle nostre esperienze che quindi risultano per questo poco chiari.
La loro metaforizzazione viene in nostro soccorso per renderceli accettabili in termini di un altro concetto che ci è più noto e che ci permette quindi di comprenderli più facilmente (e che può essere stato a sua volta precedentemente metaforizzato).

Esempio tipico è quello dei concetti astratti il cui significato risiede nel nucleo della personale esperienza percettiva del mondo e quindi più familiari, chiari e più significati proprio perché personali.
 
Potremmo dire allora che queste esperienze personali e "personalizzate" rappresentano la base della nostra vita conoscitiva , del nostro sistema concettuale. Base sulla quale si costruisce il resto del sistema concettuale e spesso attraverso successive estensioni metaforiche.

Come scrivono Lakoff e Johnson (1998: 81):

" noi generalmente concettualizziamo il non fisico in termini del fisico, cioè concettualizziamo

ciò che è meno chiaramente delineato in termini di ciò che è più chiaramente delineato. "
 

Lakoff e Johnson chiamano strutturali le metafore che strutturano un concetto nei termini di un altro concetto.  In altre parole, se per esempio sto considerando la metafora secondo la quale “la discussione è una guerra”, non mi fermerò a questa prima considerazione, ma articolerò la metafora cogliendo tutta una serie di somiglianze fra la situazione “discussione” e la situazione “guerra”.

E' sicuro che i due concetti non si sovrappongono mai totalmente altrimenti sarebbero lo stesso concetto; la metafora mette in evidenza determinati aspetti (quelli che manifestano somiglianza con l'altro concetto) del concetto metaforizzato, mentre trascura o nasconde gli altri.
metafore diverse ci restituiranno concezioni diverse e aspetti diversi dei concetti come abbiamo visto per il caso della DISCUSSIONE che può essere metaforizzata come GUERRA o come DANZA.


Quando le metafore strutturano  insiemi di concetti e non solamente i singoli concetti; per organizzare fra di loro i rapporti possono essere usati concetti di partenza e in questo caso sono determinanti le cosiddette METAFORE di ORIENTAMENTO, poiché molte di loro hanno a che fare con l'orientamento spaziale: su - giù, dentro - fuori, davanti - dietro, etc..

Nel linguaggio quotidiano, si possono identificare metafore spaziali che portano con se valori profondi legati alla priopercezione, l'immediata valorizzazione del proprio ESSERCI in relazione agli imput esterni ricevuti nel corpo e attraverso il corpo: in che senso distinguiamo il discorsi alti dai discorsi bassi? una persona profonda da una superficiale? Questi orientamenti spaziali derivano dalla costituzione stessa del nostro corpo e dal suo funzionamento fisico che ci circonda.
LE METAFORE di ORIENTAMENTO danno al concetto un orientamento spaziale: ad esempio il concetto "contento" è  su, il fatto che sia orientato nella direzione su determina espressioni come "oggi mi sento su di morale".
Questi ORIENTAMENTI METAFORICI hanno base nella nostra esperienza fisica e culturale. non sono arbitrari. E sebbene le opposiszioni su-giù, dentro - fuori, etc., siano di natura prettamente fisica le metafore di orientamento basate su di esse possono variare da cultura a cultura.
poiché queste METAFORE di ORIENTAMENTO servono a strutturare sistemi di concetti, deriva che se un "contento è su", allora "triste è giù". Avremo così insieme espressioni come "avere il morale alto", "sentirsi giù", "essere depresso", "avere il morale a terra o basso", etc..


La teoria dei due studiosi Lakoff e Johnson è in armonia con la posizione di U. Eco che sostiene la necessità di considerare contestualmente i processi metaforici, mai riducibili a semplici operazioni su parole singole e l'inutilità di formulare distinzioni troppo rigide o assolute fra proprietà essenziali dizionariali o concettuali e proprietà enciclopediche
 Il meccanismo sul quale si basa la metafora (e che dai due autori americani non viene analizzato approfonditamente) è lo stesso: una “similarità”, ovverosia una comunanza di determinati tratti.
Anche il fatto che una metafora metta in evidenza determinati aspetti del concetto e ne nasconda
altri può essere ricondotta all’idea echiana della metafora che esalta alcuni tratti e ne narcotizza altri.

 
l'intuizione presente anche in Eco dei due studiosi Lekoff e Johnson è portare la metafora dal piano linguistico a quello concettuale, presente anche in Aristotele il passaggio di questo tipo ne accresce il valore conoscitivo: metafora come foriera di nuove cose, come significante di una ristrutturazione continua che andiamo ad eseguire sulle nostre conoscenze,
sul nostro sistema concettuale.

Nell'interazione UOMO MACCHINA, Hci (Human-Computer Interaction) questa concezione più ampia della metafora, intesa come meccanismo e strumento cognitivo, sta incontrando successo e approvazione, mettendo in evidenza come spesso un utente che non conosce un determinato sistema riesce comunque ad interagire con esso richiamando esperienze e modelli acquisiti in situazioni simili (Mantovani 1995)
Più in generale sembra in larga parte metaforico il processo attraverso il quale molte innovazioni tecnologiche vengono metabolizzate. Molto spesso infatti una nuova tecnologia, per essere accettata dai suoi potenziali utenti, deve presentarsi con un aspetto familiare. Deve, in altre parole, proporsi sotto una veste che metta in evidenza la continuità rispetto al passato e il parallelismo con altre tecnologie già esistenti (stesso aspetto, stesse funzioni, ecc.). In questo modo l’utente è facilitato, perché tenderà ad utilizzare di f ronte alla nuova tecnologia modelli di comportamento e di fruizione che ha sviluppato in altre circostanze.
Basti pensare al caso esemplare delle interfacce grafiche per i sistemi operativi in cui venne utilizzata l’idea della scrivania. In questo modo una serie di funzioni che precedentemente erano attivabili solo attraverso criptiche istruzioni venivano “ancorate” ad oggetti di uso comune. Ovviamente il legame fra questi oggetti e la funzione (informatica) che attivavano era metaforico: il cestino per buttare vecchi file, la busta da lettere per inviare o ricevere messaggi, un foglio di carta per il programma di scrittura, ecc. Insomma, l’utente inesperto imparava a gestire l'interfaccia del suo computer "come se" si trovasse di fronte alla sua scrivania.
 

La stessa cosa accade con la diffusione di un nuovo medium. Bolter e Grusin [2002], ispirandosi a McLuhan, parlano in questo caso di remediation, cioè del processo attraverso il quale ogni nuovo medium riprende alcune caratteristiche comunicative dei suoi predecessori. Possiamo fare un sempio concreto, per far comprendere meglio come funziona questo meccanismo.

Oggi i siti Internet più famosi sono i cosiddetti “portali”, che si presentano con un’interfaccia che richiama direttamente quella del quotidiano. In questo modo l’utente, prima di sviluppare una competenza specifica, sarà indirizzato a fruire la home page del portale “come se” si trattasse della prima pagina di un giornale. E il portale ha del giornale, almeno in parte, la funzione informativa. Solo che l’informazione veicolata non si ferma a quella tipica della prima pagina dei quotidiani. Se analizziamo le home page dei portali e le prime pagine dei quotidiani da un punto di vista visivo ci accorgiamo di numerose analogie. Dell’organizzazione spaziale: rettilineo (alto/basso, destra/sinistra, ecc.) e curvilineo (centrale/periferico, circoscrivente/circoscritto). Ed è su opposizioni come alto/basso, destra/sinistra che si regge la struttura del portale, riprendendo in questo l’impostazione “a moduli” del quotidiano. I due tipi di testi, infatti, sono solitamente organizzati in modo simile. Ora senza stare a fare una analisi dettagliata e topografica del sistema in uso nel web, dal punto di vista eidetico (cioè dello studio di quelle che il linguaggio comune chiama “forme”) tanto i portali quanto i quotidiani si caratterizzano, in accordo con la loro struttura topologica, per la presenza quasi esclusiva di linee rette e per il predominio dell’ortogonalità (quadrati, rettangoli, ecc.). I valori cromatici sono sempre saturi e ben definiti: vengono utilizzati per lo più i colori fondamentali. In questo caso, quindi, la somiglianza visiva fra i due tipi di testi (prima pagina del quotidiano e home page del portale) ci consente di creare un legame metaforico e di utilizzare la seconda “come se” ci trovassimo di fronte alla prima.
 
 

Possiamo quindi sostenere con un certo senso di la nostra vita è pervasa da metafore
 

 

 

 

Bibliografia

Bolter, J.D., Grusin, R., 2002, Remediation, Guerini e Associati, Roma (tit. orig. Remediation.

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Eco, U., 1984, Semiotica e filosofia del linguaggio, Bompiani, Einaudi

Lakoff, G., Johnson, M., 1998, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano (tit. orig. Metaphores

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