A volte il poter verificare che si può giungere là dove ci si era prefissati di arrivare, avendo la possibilità di sperimentare le proprie forze e le proprie insicurezze viene vissuto come qualcosa di troppo estremo, una energia di movimento e volontà che può sopraffare.
E' che in questo modo ci togliamo il coraggio di affrontare il cambiamento, attraverso un angosciato atto di sabotaggio tale da rendere impossibile raggiungere una esperienza grande o piccola che sia.
Scegliere solo quello che reputiamo comodo e scegliere di negarsi il poter dire "non mi sento capace", vuol dire rinnegare un lavoro di autostima che deve essere raggiunto a volte con fatica e con impegno.
Assunzione di responsabilità che, come in questo caso, pesano.
Il non fare le cose o attraversare le esperienze perché così non incontro il mio senso di inutilità, la paura di riuscire è anche la paura del dopo.
Poiché una volta raggiunto l'obiettivo, dopo, cosa farò? Cos'altro potrò inventarmi per sentirmi vivo? Soprattutto se mi sono sentito vivo solo attraverso la difficoltà o il dolore forse perché è l'unica esperienza che conosco fino ad oggi?
Mette inoltre in campo anche un'altra attesa performativa: dopo aver fatto quella cosa che mi sembra irraggiungibile e averla superata, non potrò tornare indietro, esigerò da me sempre prestazioni di quel livello, se non superiori.
Ci vuole coraggio anche per riuscire, il coraggio di sbagliare e riprovare, alla paura si delega la decisione di essere felici, al coraggio dobbiamo concedere l'opportunità di sbagliare; più saremo in grade di tollerare la frustrazione e il fallimento e più saremo in grado di realizzare il cambiamento tanto temuto.
Il fatto di bloccarci appena siamo vicini al traguardo e percepire il futuro come un vuoto senza problematiche ci porta a concepire la paura in un unico movimento, mentre invece può avere direzioni e andamenti diversi.
Proviamo a guardare la nostra paura senza tentare di risolverla, senza introdurre al suo posto il coraggio, senza sfuggirla, semplicemente standoci.
Solo quando siamo in contatto con la nostra paura allora la nostra mente può percepire quella che è la paura totale e non quello di cui abbiamo paura.
Senza perdersi a guardare gli aspetti particolari e peculiari della paura, scansionati pedissequamente uno per volta, in una catena quasi infinita di sfumature, che non arriveranno mai al problema centrale che è l’imparare a vivere con la paura. E' semplicemente perdersi in quelli che io chiamo i "preliminari" senza atto conclusivo.
Orientando acutamente Mente Cuore e Pelvi, sperimentando l'assenza di giudizio o il solo non giungere a conclusioni, ma seguendo ogni movimento della paura,.
Chiedendoci “chi è l’entità che vive con la paura? “ “Chi è che osserva la paura?” L'osservatore che dice "Ho paura" è forse separato dalla sua paura?
L’osservatore è la paura stessa e quando si arriva a comprende questo non vi è più alcun spreco di energia nel tentativo di sbarazzarcene. Quando vediamo che noi siamo parte della paura, che noi siamo la paura, allora non possiamo farci niente. Solo così la paura può giungere totalmente alla fine.
Chiedendoci “chi è l’entità che vive con la paura? “ “Chi è che osserva la paura?” L'osservatore che dice "Ho paura" è forse separato dalla sua paura?
L’osservatore è la paura stessa e quando si arriva a comprende questo non vi è più alcun spreco di energia nel tentativo di sbarazzarcene. Quando vediamo che noi siamo parte della paura, che noi siamo la paura, allora non possiamo farci niente. Solo così la paura può giungere totalmente alla fine.
Negli anni Sessanta del Novecento, lo studioso statunitense John W. Atkinson (1923-2003) ha elaborato una teoria ben precisa riguardo alla voglia di riuscire e alla paura di non farcela.
Secondo Atkinson gli individui, quando si trovano di fronte a un determinato compito o ad un obiettivo da raggiungere, sono sollecitati da due spinte motivazionali contrapposte:
• la tendenza al successo (speranza di riuscita)
• la tendenza a evitare il fallimento (paura dell'insuccesso).
La prima spinge le persone a impegnarsi in compiti difficili (ma percepiti come fattibili), mentre la seconda le induce a scegliere compiti più facili (per i quali il fallimento è improbabile)o, all'opposto, estremamente difficili (per i quali questa eventualità è attribuibile a cause indipendenti dalla loro responsabilità).
La prima spinge le persone a impegnarsi in compiti difficili (ma percepiti come fattibili), mentre la seconda le induce a scegliere compiti più facili (per i quali il fallimento è improbabile)o, all'opposto, estremamente difficili (per i quali questa eventualità è attribuibile a cause indipendenti dalla loro responsabilità).
Naturalmente, il ruolo e il peso di queste due tendenze variano considerevolmente da individuo a individuo: esistono persone "paralizzate" dalla paura di fallire; altre che amano mettersi in gioco in attività molto impegnative; altre ancora in cui la speranza del successo e la paura del fallimento si bilanciano.
Combinando tra loro le diverse possibilità, Atkinson ha individuato 4 tipologie differenti di soggetti:
Combinando tra loro le diverse possibilità, Atkinson ha individuato 4 tipologie differenti di soggetti:
• over-strivers, con alta tendenza al successo e alta tendenza a evitare il fallimento;
• success-oriented, con alta tendenza al successo e bassa tendenza a evitare il fallimento;
• failure-acceptors, con bassa tendenza al successo e bassa tendenza a evitare il fallimento;
• failure-avoiders, con bassa tendenza al successo e alta tendenza a evitare il fallimento.
Ad esempio, il ragazzo definito dai suoi insegnanti "poco motivato allo studio" rientra proprio in quest'ultima categoria: non crede nelle proprie possibilità di successo scolastico ed è allo stesso tempo angosciato dall'eventualità di fallire. Di pari passo con la paura del fallimento, spesso viviamo la paura del successo: l’idea che se osiamo troppo i nostri legami con la famiglia e con gli amici, con le cose “vere” insomma, si deterioreranno.
E questo timore sembra colpire in maggior misura le donne. La psicologa Martina Horner ha ideato un test sulla personalità nel quale si chiedeva a uomini e donne di scrivere la storia di due studenti di medicina, una femmina e un maschio. In quasi due terzi dei racconti delle donne la studentessa esprimeva una paura del rifiuto, oltre alla preoccupazione di violare i canoni culturali della femminilità.
Caso frequente è poi quello dei sentimenti contrastanti delle donne di fronte alla prospettiva di guadagnare più dei mariti, una vera e propria “tendenza al ribasso personale”. Un’indagine condotta nelle università dell’Ivy League conferma che le donne temono di spiccare intellettualmente, per paura che questo influenzi negativamente l’opinione che gli uomini hanno di loro. Preconcetti che credevamo estinti appaiono dunque più vivi che mai.
E da simili paure non sono immuni neppure le professioniste di successo. Come riporta la columnist del New York Times Maureen Dowd nel suo libro “Are Men Necessary? When Sexes Collide”: “Una mia amica il giorno in cui ha vinto il Pulitzer mi ha chiamato quasi in lacrime: “Adesso”, si è lamentata, “nessun uomo vorrà più invitarmi ad uscire”.
E questo timore sembra colpire in maggior misura le donne. La psicologa Martina Horner ha ideato un test sulla personalità nel quale si chiedeva a uomini e donne di scrivere la storia di due studenti di medicina, una femmina e un maschio. In quasi due terzi dei racconti delle donne la studentessa esprimeva una paura del rifiuto, oltre alla preoccupazione di violare i canoni culturali della femminilità.
Caso frequente è poi quello dei sentimenti contrastanti delle donne di fronte alla prospettiva di guadagnare più dei mariti, una vera e propria “tendenza al ribasso personale”. Un’indagine condotta nelle università dell’Ivy League conferma che le donne temono di spiccare intellettualmente, per paura che questo influenzi negativamente l’opinione che gli uomini hanno di loro. Preconcetti che credevamo estinti appaiono dunque più vivi che mai.
E da simili paure non sono immuni neppure le professioniste di successo. Come riporta la columnist del New York Times Maureen Dowd nel suo libro “Are Men Necessary? When Sexes Collide”: “Una mia amica il giorno in cui ha vinto il Pulitzer mi ha chiamato quasi in lacrime: “Adesso”, si è lamentata, “nessun uomo vorrà più invitarmi ad uscire”.
La paura è uno dei più grossi problemi della vita. Una mente intrappolata dalla paura, vive nella confusione, nel conflitto. Non osa distaccarsi dai suoi caratteristici modelli di pensiero e perciò diventa ipocrita. Vivendo in questa società, con l’educazione che riceviamo basata sulla competizione che genera paura, siamo sovraccarichi di paure di ogni tipo e la paura è una cosa spaventosa che deforma distorce e intorpidisce i nostri giorni.
Esiste anche la paura fisica, ma quella è una reazione simile a quella degli animali.
Qui ci occupiamo della paura psicologica. Quando avremo capito le paure psicologiche profondamente radicate dentro di noi, allora potremo affrontare le paure animali, mentre occuparsi prima della paura animale non ci è di alcun aiuto per comprendere le paure psicologiche.
Abbiamo sempre paura di qualche cosa. Non esiste la paura in astratto, essa è sempre in rapporto a qualche cosa.
Conosciamo le nostre paure?
Paura di perdere il lavoro, di non avere cibo o denaro a sufficienza, paura di ciò che gli altri pensano di noi, paura di non riuscire ad avere successo, di essere ridicolizzati, disprezzati, paura delle malattie, paura di perdere le persone che ci sono care, paura di perdere la fede, di venire meno all’immagine che gli altri si sono creata di noi etc…
Quali sono le nostre paure? Che cosa facciamo nei loro confronti?
In genere le fuggiamo, ma fuggire dalla paura significa farla crescere.
In genere le fuggiamo, ma fuggire dalla paura significa farla crescere.
Una delle principali paure è che abbiamo paura di affrontarle.
Ma che cosa è la paura?
Ma che cosa è la paura?
Come nasce?
Che cosa intendiamo veramente quando diciamo la parola paura?
Che cosa intendiamo veramente quando diciamo la parola paura?
Conduciamo un certo tipo di vita, pensiamo secondo un certo modello, seguiamo una certa fede, certi dogmi e non vogliamo che questi modelli di vita vengano scossi perché sono profondamente radicati in noi. Noi vogliamo essere ragionevolmente sicuri dello stato di cose a cui andiamo incontro. Perciò il pensiero ha creato un modello e si rifiuta di crearne un altro che potrebbe essere insicuro o rendermi insicuro.
Prendiamo ora le nostre particolari forme di paura, guardiamole ed osserviamo quali sono le nostre reazioni ad esse.
Possiamo guardarle senza ricorrere alla fuga, alle giustificazioni, alla condanna, al soffocamento di esse?
Il primo e fondamentale passo verso la risoluzione delle paure è accettare la loro esistenza e poi riuscire a guardarle senza dare loro una connotazione negativa.
La risposta definitiva la lascio a Nelson Mandela.
«La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre misura. È la nostra Luce, non le nostre Tenebre, ciò che più ci spaventa. Ci domandiamo: chi sono io per essere brillante, splendido, ricco di talento, favoloso? In realtà, chi NON devi essere? Sei un figlio di Dio. Farti piccolo non serve al Mondo. Non vi è nulla di illuminante nel restringersi cosicché gli altri attorno a te non si sentano insicuri. Noi siamo nati per rendere manifesta la gloria di Dio che è dentro di noi. Non è soltanto in alcuni di noi; è in tutti. Facendo brillare la nostra Luce, inconsciamente diamo agli altri il permesso di fare lo stesso. Mentre noi ci liberiamo della nostra paura, la nostra presenza automaticamente libera gli altri».